sabato 4 ottobre 2008

Birmania. La protesta silenziosa



Ho scritto questo pezzo nell'ottobre 2007. Esattamente un anno fa il popolo birmano subiva ingiustificate violenze e umiliazioni. Lo ripropongo. Per non dimenticare.

E’ da più di un mese ormai che gli occhi del mondo sono puntati su ciò che accade in Birmania, protagonista indiscussa delle prime pagine di tutti i giornali, le cui atrocità delle immagini che arrivano continuamente nelle nostre case, non possono che lasciarci indignati e addolorati di fronte a tale incomprensibile e gratuita violenza.
La Birmania (dal 1989 diventata Myanmar) è una terra martoriata da decenni di feroce dittatura militare, repressa da un governo che violenta costantemente la dignità di un intero popolo, riducendone la libertà ai minimi termini. Basti pensare che le ultime elezioni, risalenti a 17 anni fa e vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, non sono mai state riconosciute dalla giunta militare. L’eroina dell’opposizione, premio Nobel per la pace nel 1991, è ancora oggi agli arresti domiciliari.
Ed ecco che ancora una volta, dopo la repressione del 1988, che si concluse in un bagno di sangue con la morte di circa 3 mila persone, i birmani scendono nelle strade a manifestare contro il governo dittatoriale, chiedendo democrazia e rispetto dei diritti umani.
Un fiume rosso di monaci dalle teste rasate e con indosso il sanghati (la veste tradizionale che contraddistingue i buddhisti birmani) scorre per le vie di Rangoon (oggi Yangoon, capitale sino al 2005) schierandosi dalla parte della popolazione da decenni soppressa dal regime, seguito dalle suore buddhiste con le tradizionali tonache rosa e da centinaia di migliaia di civili. Un corteo pacifico e silenzioso, le cui uniche armi sono la fede e il coraggio.
Le proteste sono continuate silenziose per giorni, sino agli attacchi violenti della giunta militare che non ha risparmiato gas lacrimogeni, manganelli e armi da fuoco per contrastarli, oltre a irruzioni nei monasteri, dove hanno picchiato e arresto numerosi monaci.
Il motivo scatenante di tale protesta, che ha visto il culmine nei giorni tra il 26 e il 27 settembre, è stato il rincaro dei costi della benzina e di alcuni generi di prima necessità, che in certi casi sono addirittura quadruplicati. Perciò, la situazione di povertà e di stenti in cui vive da anni la popolazione birmana e l’improvviso e inaspettato rialzo, hanno fatto sì che esplodesse la scintilla della rivolta.
La repressione violenta sui monaci si è abbattuta il nono giorno di manifestazione pacifica dei religiosi, che hanno sfilato nelle maggiori città birmane, sfidando i crudeli militari in tenuta antisommossa, in nome della libertà e della non-violenza, uno dei dogmi fondamentali della religione buddhista, in cui il 90% della popolazione crede fermamente.
Guardando le immagini in televisione o sui giornali, non si può non restare attoniti di fronte a una così incomprensibile e illogica violenza, tanto da pensare che il governo birmano non sia solo crudele e spietato, ma anche spinto ad agire in tale maniera da una subdola follia.
Il rosso acceso delle vesti dei bonzi è in netto contrasto con il grigiore della città, sbiadita forse dalle piogge torrenziali di questi giorni monsonici e dai volti inetti dei soldati, che, senza scrupoli e sentimenti, si rivoltano contro poveri monaci scalzi, i quali, a loro volta, rispondono solo pregando.
In questi giorni la giunta militare ha preso dei rigidi provvedimenti per smorzare la protesta, imponendo il coprifuoco dal tramonto all’alba in tutte le principali città come Rangoon, Mandalay, Sittwa. Inoltre, è stato vietato qualsiasi assembramento di più di cinque persone e il Paese è stato privato di connessione Internet, dichiarando falsamente che ciò è dovuto alla rottura di un cavo sottomarino. In realtà, il governo ha oscurato i collegamenti per impedire che le notizie sulla rivolta siano divulgate all’esterno, cacciando anche tutti i giornalisti stranieri e uccidendone due (un fotografo giapponese e un reporter tedesco), che si trovavano in mezzo ai manifestanti.
Nonostante tutte le misure di controllo, le notizie continuano a trapelare da fonti non ufficiali e, ora che la situazione pare essersi calmata, si stima che circa 6 mila siano stati arrestati, portati in campi di detenzione e costretti ai lavori forzati, 200 i morti (i cui corpi sono stati cremati per non lasciare nessuna traccia) e decine e decine i dispersi.
Dopo il tragico bilancio di vittime che ha fatto e continua a perpetrare il regime birmano, mi viene in mente un passaggio del libro “In Asia”, di Tiziano Terzani, che riporto di seguito:
Quando, 140 anni fa, il re Mindon decise di trasferire in questa città la capitale del Paese, per prima cosa fece seppellire vive nelle fondamenta della sua nuova reggia 52 persone. Dovevano servire da “spiriti protettori”. Il suo successore, re Thibaw, temendo che qualcuno volesse usurpargli il trono, fece mettere in galera tutti i suoi parenti e diede ordine di ucciderne 80. [...] Quando le sorti del suo regno cominciarono a vacillare, pensò di rafforzare gli spiriti protettori con altri 600 uomini e donne da interrare vivi attorno al palazzo reale”.
Ora in Birmania, quasi per uno scherzo del destino, la storia sembra ripetersi e le efferatezze del governo birmano trovano antecedenti nella spietatezza dei re del passato. Forse la pazzia omicida dei governatori è innata, fa parte di un retaggio storico-culturale difficile da cancellare.

venerdì 3 ottobre 2008

Cinesi figli unici


Esisteva un tempo in cui, nelle antiche case pechinesi tradizionali, tutta la famiglia viveva insieme in armonia all’interno di un recinto in pietra massiccia, alto così da permettere un’idilliaca alienazione dal mondo esterno. All’interno di questo giardino venivano edificate le dimore di ciascun nucleo familiare: al centro quella dei genitori anziani e lateralmente quelle dei figli con le rispettive famiglie.
Il concetto di “famiglia allargata” era, a quell’epoca, caro a tutti e addirittura sacrosanto.
Ma come tanti altri aspetti della società cinese tradizionale, anche questo è cambiato radicalmente, lasciando solo uno sbiadito ricordo della famosa frase del poeta Laoshe, divenuta anche il titolo di una sua opera, “Quattro generazioni sotto lo stesso tetto”.
Oggi in Cina avere un solo figlio a famiglia non è più solo una scelta personale, ma è divenuto un obbligo. Nel 1979, infatti, sotto il governo di Deng Xiaoping, è stata promulgata una legge secondo la quale ogni coppia cinese si impegna a non procreare più di un figlio, pena una sanzione da pagare allo Stato di 160 mila yuan (pari a circa 15 mila euro). Impresa impossibile per una modesta famiglia cinese, il cui reddito annuo ammonta a 8 mila yuan (750 euro). Partorire più di un figlio è quindi riservato ad una ristretta cerchia di benestanti, che possono permettersi di pagare tali “multe”. In questo modo il problema del figlio unico si lega ancora una volta a quello dell’abisso sociale fra ricchi e poveri e a quello della corruzione dei quadri del partito, che usano la politica del figlio unico per intascare tasse e beni.
La suddetta legge dovrebbe essere una misura di prevenzione, se si considera che il Paese è stato soggetto più volte a inondazioni e carestie e, così facendo, si garantisce la sopravvivenza di tutti i componenti, essendoci un minor numero da sfamare. Inoltre si controlla la crescita demografica, problema tuttora preoccupante, calcolando il miliardo e 300 milioni di abitanti.
Tuttavia la politica cinese del figlio unico è una lenta tragedia umana, non solo perchè mina la possibilità di sviluppo futuro del Paese, ma è anche la causa della mancanza di manodopera e di una società sempre più vecchia. Tra il 2005 e il 2030 i giovani tra 15 e 24 anni diminuiranno del 20%, mentre ci sarà un aumento di chi ha più di 50 anni. Per il 2030 si prevede un raddoppio di chi ha oltre 65 anni.
In alcune province della Cina sono comiciate le proteste e gli scioperi: i manifestanti sono per la maggior parte famiglie costrette a pagare le tasse per i figli avuti e non consentiti dalla legge, che sono stufi delle quote imposte anche con la violenza. Si parla di case distrutte, mobili e vari beni confiscati e addirittura alcune donne sono state costrette ad abortire al nono mese di gravidanza per contenere la quota di nuovi nati che il governo assegna ad ogni città annualmente.
Una donna cinese di Shanghai, Mao Hengfeng, ha subito torture per non aver rispettato la politica del figlio unico e ha scontato 18 mesi di lavori forzati, oltre alla “rieducazione attraverso il lavoro”. Nel 1988, infatti, la donna aveva avuto il suo secondo genito e per questo aveva perso il lavoro. In seguito aveva intentato una causa per far valere il suo diritto al lavoro, ma era rimasta incinta per la terza volta e, presi accordi con il giudice, il quale le aveva promesso di farle riavere il lavoro, aveva acconsentito all’aborto, ma era stata nuovamente condannata. Purtroppo esistono moltissime storie come questa e anche molti casi di bambini “di nessuno”, che non vengono registrati per non pagare la tassa, improponibile per molti e destinati, quindi, a “non esistere”.
L’Accademia cinese delle scienze sociali, per evitare tutto ciò, chiede di abolire la politica del figlio unico e chiede la sostituzione con una politica dei 2 figli.
Se tale legge non dovesse essere appovata, ai poveri cinesi non resta altro che pregare la dea Guanyin, che allevia le sofferenze terrene e dispensa fertilità e sperare di avere 2 gemelli, unico modo per avere 2 figli senza pagare la tassa.

Strane abitudini alimentari cinesi

larve

“Non importa se vola nel cielo, se nuota nell’acqua o se cammina sulla terra: tutto può essere preso e mangiato”.
Recita così un antico detto cinese, che descrive benissimo uno degli aspetti più interessanti della cultura cinese: quello gastronomico.
E in effetti, le abitudini alimentari del Regno di Mezzo sono conosciute al mondo intero come le più variegate e bizzarre. E, ad eccezione di aerei, auto e navi, per ritornare al vecchio proverbio, niente va buttato via!
Camminando fra gli innumerevoli mercatini e food street cinesi, gli occhi saranno attratti da alimenti dalle forme e sembianze più strane, come radici di ginseng (che i cinesi credono aiutino a vivere più a lungo, tant’è che spesso arrivano a costare anche 20 mila euro!), corna di qualche animale delle montagne Himalayane (utili per la medicina tradizionale cinese), ma anche cavallucci marini essiccati, stelle marine, serpenti e chi più ne ha più ne metta. 
lombrichi
A Pechino c’è una via molto famosa chiamata Wangfujing, meta di turisti locali, che ci arrivano affamati dopo una giornata a girovagare per la città, caratteristica per le bancarelle colorate che servono una varietà di spiedini impensabile. Scarafaggi, lombrichi, scorpioni, mosche, larve, cavallette sono solo alcune delle tante prelibatezze infilzate su bastoncini di legno dopo essere state panate e fritte a dovere.
Molte tra le specialità più insolite vengono mangiate soprattutto dagli uomini, poiché considerate afrodisiache. E in nome della virilità maschile (vera e propria ossessione degli uomini orientali) non si rinuncia a niente, che siano ostriche e champagne, pinna di pescecane o vermi!
Come noi, mangiano il maiale (di cui non si butta via niente, ma proprio niente!) ed è facile imbattersi in alimentari locali che, invece di vendere salumi suini, propongono intere facce di maiale sottovuoto, con tanto di occhi sgranati che ti guardano dall’involucro di plastica trasparente.

La cultura del cibo e quindi del mangiare è una vera e propria tradizione e ossessione e in qualsiasi ora del giorno e della notte è possibile vedere ristoranti gremiti di gente intenta a godersi deliziosi piatti tipici delle numerose province cinesi.
Tutta questa importanza data al cibo è da ricercare anche in una sorta di fame atavica, dovuta a carestie, catastrofi naturali, che hanno flagellato la popolazione negli anni passati e che ancora oggi continuano a imperversare in alcune zone povere della nazione e alla sovrappopolazione.
Ovviamente non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, nel senso che non tutti i cinesi sono divoratori di cani, gatti, topi e vermi. La Cina, come tutti sappiamo, è molto grande e variegata dal punto di vista geografico e climatico e tali diversità nel corso della sua storia hanno dato vita allo sviluppo di una miriade di cucine locali che spesso sono completamente differenti tra loro. Inoltre il consumo di quegli animali domestici per noi occidentali e di insetti di ogni specie è per lo più ascrivibile alle regioni del sud, da sempre più povere rispetto al resto della nazione. In ogni caso, il cibarsi di animali “strani” è del tutto normale e naturale per i cinesi, che non la considerano barbarie, poiché la loro tradizione ritiene che certi tipi di carne siano benefici per la salute e conferiscano particolare vigore e forza.
E seppur oggi certe usanze facciano scandalizzare e disgustare i nostri fini e delicati palati occidentali, non dobbiamo dimenticare che anche da noi, all’epoca dei nostri nonni e antenati, spesso in tempi di guerra, si è fatto uso di carne non proprio consona alle nostre abitudini alimentari. Inoltre, anche oggi, molti dei piatti tipici di alcune regioni italiane potrebbero essere considerati disgustosi anche dagli onnivori cinesi.
Perciò, sarà meglio un bel piatto di api fritte o di “cuzzedde” (prelibate lumachine salentine)? A voi la scelta.

Breve reportage di una ventenne alle prese con la Cina

uomo in una sala da te`a Shanghai
Gente ovunque, frenesia e confusione totale, tassisti regolari e abusivi con enormi macchine nere dai vetri oscurati da fare invidia a qualsiasi set cinematografico di ambientazione mafiosa: è questo lo scenario che ti si presenta davanti agli occhi appena esci dall’aeroporto di Beijing, Pechino per noi occidentali o Shanghai.
Subito l’impatto con la Grande Cina dai mille volti è forte e ciò che emerge istantaneamente è la sovrappopolazione.
Biciclette ti sfrecciano accanto ad una velocità quasi convulsa, seguite da carretti, auto e qualsiasi tipo di catorcio provvisto di ruote e se non vieni investito nel giro di quindici minuti, puoi credere ai miracoli! Tra pedoni e mezzi il caos è assicurato.
Ma alla Cina febbrile e sregolata se ne contrappone una fatta di “taijiquan” e pratiche del corretto respiro e di rilassate partite a “mahjong” (paragonabile al nostro domino), bevendo una tazza di tè al gelsomino o ai crisantemi.
Il turista occidentale che si trova catapultato in una realtà ben diversa da quella in cui è abituato a vivere, non può non restare sbigottito di fronte agli enormi grattacieli futuristici, al vortice consumistico che sta spazzando via alla velocità della luce ciò che resta dell’antica Cina dei film di Bertolucci o di Zhang Yimou.
E ancora una volta il contrasto tra il vecchio e il nuovo è disarmante.
Si può infatti ammirare una splendida pagoda di epoca Tang accanto ad un palazzone avveniristico, o una bottega che vende radici di ginseng ed erbe essiccate per la medicina tradizionale accanto ad una boutique di Gucci. E sarebbero solo pochi degli esempi che fanno della Cina il Paese delle contraddizioni.
Fuori dalle città illuminate dalle bizzarre insegne a neon, ci si imbatte in villaggi di campagna nei quali il tempo pare essersi fermato o perso nella notte dei tempi e in cui avere una televisione in bianco e nero o la sola elettricità è un lusso di pochi.
Imbarazzante è poi sentire gli occhi addosso dei cinesi quando un “lao wai" (termine che significa "straniero", in cui "lao" significa "vecchio", ma indica rispetto verso chi non si conosce e "wai" significa "fuori, esterno") passa per la strada; occhi impenetrabili ed enigmatici, forse per la loro forma come una fessura, forse per una diffidenza innata nei confronti del mondo, o forse retaggio della loro Storia passata.
Sfido chiunque a cercare di interpretare quello sguardo, quell’espressione!
“Omertà” potrebbe essere una parola che gli si confà, probabilmente perché, come recita un detto cinese: “In ogni famiglia c’è un libro che non si deve leggere a voce alta”.